Luigi Rapisarda Se guardiamo al nostro panorama politico tra populismi, incapacità, improntitudine,pressappochismo,giustizialismo,dottrine antisistema, avventurismo e grave sbilanciamento del rapporto tra i poteri dello Stato, non possiamo non provare forte preoccupazione per il degrado politico, economico e sociale nel quale una classe politica inadatta e velleitaria ci ha condotti e al contempo per il futuro dell’Italia.
Un quadro aggravato anche dalla crescente perdita di credibilità della magistratura, in un paese democratico, baluardo insormontabile di tutela dei diritti e delle guarentigie costituzionali.
Che invece, agendo senza freni (alludo ovviamente a quella minoritaria, espressione di una cultura correntizia ma soverchiante perché orientata da missioni politiche,inconfessate),anche per una normativa sulla responsabilità poco efficace,continua ad esercitare inopinate funzioni di supplenza, condizionando indirettamente, con inchieste, che taluni osservatori definiscono ad orologeria, le dinamiche politiche e persino le nomine dei titolari delle procure, come sembra aver scoperchiato il caso Palamara e il recente caso Amara, con tanto di inchieste in corso, alterando totalmente l’autonomia e l’esercizio degli altri due poteri.
E neanche il premier pare riuscire a trovare facilmente il bandolo della matassa in questo labirinto infernale, fatto di leggi che si accavallano tra di loro, di una burocrazia irrazionale e di conflitti spesso non facilmente superabili con le Istituzioni regionali a causa di una modifica costituzionale foriera di permanenti conflitti.
Noi non possiamo non provare forte preoccupazione per il degrado politico, economico e sociale verso cui, questa classe politica inadatta e velleitaria ci ha condotti, mettendo pesantemente a repentaglio il futuro dell’Italia.
La ragione principale non può che ricondursi ad una inarrestabile deriva populista e trasformista che non pare arrestarsi.
Prova ne è, a sinistra, l’inconcludenza, o se meglio vogliamo dire, il fallimento di un’alleanza organica, con all’orizzonte non solo le amministrative di ottobre ma la prossima tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento.
Accordo che appena qualche settimana fa sembrava la panacea di tutti i mali, in primis, l’ambiguità identitaria che affligge l’area della sinistra, da diverso tempo e il facile trasformismo dei 5 Stelle.
In realtà il tentativo era di sfondare anche al centro facendo gola i tanti elettori di quest’area, nella gran parte, rimasti lontano dalle urne.
Il perché e il come questa alleanza non sembra aver decollato, penso, vada principalmente cercato nello zoccolo duro di un elettorato grillino che nulla vuol sapere di cangiamenti tattici, propiziati caldamente dall’ala governista per demarcarsi da tutte quelle barriere, strombazzate all’elettorato perché impedissero un carrierismo politico e che invece ora bellamente vorrebbero scavalcare.
E così a tutto vantaggio di una visione giustizialista e populista che resta trasversalmente, come lo è stata nel Conte 2, l’anima dell’uno e dell’altro partito.
Non più rassicurante ci pare la situazione nel versante del centrodestra con Forza Italia in forte calo di consensi e uno sbilanciamento verso politiche di destra sovranità e populista.
In questo quadro non vediamo come possa avvenire un’inversione di rotta con un Berlusconi, protagonista nella ventennale stagione che lo ha visto artefice di politiche improntate ad un convinto europeismo e a tentativi, mal riusciti, di introdurre una visione più moderna e liberale negli ordinamenti, finendo solo per incidere fortemente su alcuni aspetti del rito penale, che la sinistra bollava come leggi ad personam, mentre la magistratura non lo perdeva d’occhio,che non ha più dalla sua le tante energie fisiche per imprese di questo genere.
Aggravato anche dal fatto che non si vede un suo erede politico.
Realtà che pone il problema di una forza moderata che funga da baricentro nell’alternarsi delle coalizioni, sempre più polarizzate.
Una necessità che si appalesa in tutta la sua portata perche’, appunto, l’attuale coalizione di centrodestra e tutta sbilanciata sulle due forze politiche, Lega e FdI che sono i campioni del sovranismo e del populismo più viscerale.
Per non parlare di un naturale antieuropeismo che caratterizza entrambi.
Una peculiarità che non può non avere un suo peso, nella delicata fase dell’esecuzione degli adempimenti per l’attuazione del Pnrr, nell’ipotesi, assai probabile, di una loro vittoria alle prossime elezioni per il rinnovo delle Camere.
Ove, quanto meno, sono immaginabili degli stop and go, per le tante prevedibili tensioni che il passaggio a un progetto di paese, secondo un modello sovranista e populista, comporta sul piano della convergenza nell’attuazione delle opere e delle riforme.
In questo scenario, e’ opportuno che quel vuoto politico sia al più presto colmato con una forza politica che non può non rappresentare quegli ideali e quei valori che furono alla base di un processo di ricostruzione e di sviluppo, nel secondo dopoguerra.
Ma riproporre una visione di paese e un progetto politico che fu capace di tale miracolo, oggi, non è facile perché la società è molto cambiata e i punti di riferimento con cui si guarda ad un partito sono molto più concentrati su risposte apparentemente risolutive ed immediate e a nulla importa che non abbiano un orizzonte di lungo periodo, esponendo il paese, come si è fatto, soprattutto in questi ultimi trent’anni, ad un degrado generale per la mancanza di una visione d’insieme.
Riprendere quelle capacità progettuali è una sfida che può fare solo un partito che si riconduca a quelle gloriose radici.
Ma serve capovolgere il metodo dell’impegno politico.
Ciò è possibile solo recuperando le linee guida di quel manifesto dei “liberi e forti” che fu ideato da don Luigi Sturzo, in tempi molto difficili anche allora, dove ebbe il coraggio di affermare che la forza di una politica si misura soprattutto nella capacità di porre come baluardo imprescindibile la centralità della persona in ogni parte dell’ordinamento che definisse il rapporto Stato-comunità, Stato-persona.
In questa ottica deve formarsi una nuova classe dirigente.
Mentre non bastano, per sentirsi pronti ad affrontare la discesa in campo, semplici richiami al Pantheon dei nostri padri del partito da De Gasperi a Fanfani, da Moro e Donat Cattin.
Così affiora prepotentemente la domanda: nel futuro della nostra Italia, molto provata da politiche improvvisate e pandemia, c’è spazio per un nuovo e armonico modello di sviluppo, come la DC seppe costruire nel secondo dopoguerra e per una rigenerata etica pubblica?
E qui che la scommessa investe direttamente la rinata DC.
Nella cruciale scelta se scendere in campo, con quel nome e con quel simbolo o se dare espressione politica ad una formazione aperta ai tanti filoni liberali, , liberisti, radicali e riformisti di forze che attualmente fluttuano in una collocazione di centro, nell’idea di un’aggregazione che si smarchi dalla sinistra e dalla destra.
Una sfida che comporta conseguenze assai diverse nell’un caso e nell’altro, ma anche a seconda se si va a votare con il proporzionale o con il maggioritario.
In ogni caso rimettere in campo la Democrazia Cristiana è cosa diversa che fare un partito nuovo, pur richiamandosi a quei valori.
Un nuovo partito non ha radici, deve farsele ed è questo il punto.
Trovare linfa per una nuova identità, in questa fase politica, dove fa fatica a diradarsi una tendenza a polarizzare le forze e le progettualità politiche, non sarà facile
Mentre non tagliare le radici con quella storia e con quegli ideali e quei valori che furono fondanti per la nostra democrazia e per lo sviluppo che seppero assicurare potrà assicurarci la giusta chiave di lettura della società e rendere credibili nuovi orizzonti, anche nella prospettiva di un Umanesimo integrale, come mirabilmente delineato da Papa Francesco.
Una sfida che non deve disperdere, neanche marginalmente, tutte quelle energie che agiscono nel territorio per poter far fronte con un progetto coerente e lungimirante, ad una propaganda politica sempre più versata nel suscitare emozioni istintuali, risposte ingannevoli, dottrine irrazionali e giustizialiste e contrapposizioni tra ceti sociali.
Peraltro in una contingenza dove ancora non si vede una sicura via d’uscita dalla terribile emergenza sanitaria, dagli effetti assai devastanti anche sul sistema economico, sui rapporti sociali e sulle libertà fondamentali.
Mentre sono ormai abituali i repentini mutamenti dell’opinione pubblica, specchio di un elettorato “liquido” sempre più incline a suggestioni e proposte che sovente risultano ingannevoli, e come in un circolo vizioso,accentuano ulteriormente reattività istintive e irrazionali, facile anticamera a derive autoritarie.
Una constatazione che rende più responsabilmente ragionevole riedificare una forza politica che abbia l’ambizione di rinverdire l’opera politico-istituzionale sull’esempio dell’esperienza politica consolidata dai primi cinquant’anni di governo del paese, dal secondo dopoguerra, e da una forte storia identitaria.
Circostanza, non da poco, che aiuta a trovare la giusta forza per riaccendere, nelle tante coscienze obnubilate da politiche divisive e strillate che privilegiano la parte istintuale della persona, le speranze su un progetto politico credibile.
Un new deal economico e sociale che tanta parte del ceto imprenditoriale, del mondo del lavoro, dei giovani e delle famiglie, si aspettano attraverso un diverso approccio nel governare le complessità del paese, semplificando le intermediazioni burocratiche e l’eccessiva invasività della pressione fiscale nel sistema produttivo, la primaria esigenza di tutela della dignità della persona, la cura del suolo e dell’ecosistema, una scuola più aderente alle repentine versatilità che oggi richiede il mondo del lavoro e un sistema di giustizia più celere accentuando le procedure di mediazione, ma in primo luogo un diverso rapporto Stato-persona.
Questo mi pare il crinale su cui dovrà necessariamente misurarsi il partito che ambisce, in questo terzo millennio, a proporsi artefice di nuove politiche.
Mentre inerpicarsi su sentieri di nuove aggregazioni dei partitini di centro, rischia concretamente di esporre il partito alla sua definitiva estinzione, nel prevedibile braccio di ferro che le dinamiche interne porterebbero.
Una fenomenologia,peraltro, che le variegate vicissitudini della confluenza in unica forza dei post-democristiani e post-comunisti hanno ben rappresentato nel turbinio di sigle e di nuove identità( dalla “Margherita”in poi)sempre dal respiro corto.
Ancora oggi ne vediamo le peripezie, con ibridazioni di valori, forieri talora di mostruosità normative,mentre le tante trasfigurazioni non hanno messo al riparo il Pd dall’inesorabile logoramento delle sue leadership, in una convivenza, difficile e divisiva, tra scissioni e rientri.
Rimarcando, qualora ce ne fosse stato bisogno, che i processi di crescita di un partito sono legati soprattutto alle sue capacità di entrare, con le proprie proposte politiche, nel corpo vivo della società civile ed imprenditoriale: aspetto molto rimarcato anche dai promotori del “Manifesto Zamagni”.
Non diversa è stata l’esperienza dei post-democristiani a destra, ridotti ad una dimensione ancillare e subalterna (ancor oggi l’Udc persegue in questo fallimentare obiettivo: evidentemente gli scranni valgono più delle idee cui ci si riconduce).
E poi non possiamo trascurare il teatrale tentativo, da parte del fantasioso Rotondi, che dichiarando che la DC è ormai morta e sepolta, si è incamminato in una estenuante ricerca di nuove aggregazioni ( il convegno di Saint Vincent, ne è stato l’abbrivio, anche se non pare abbia avuto un plausibile seguito), il cui unico prevedibile risultato, nell’ipotesi di un suo concreto esperimento, non può che riportare l’inguaribile irpino, al fianco di nuovi padroni politici, con la conseguente liquidazione, in una stagione così cruciale del paese, del patrimonio di valori e di grandi ideali, che invece meritano di essere riattivati e riportati a vita autonoma.
Sicché fa apparire velleitario sperimentare sentieri così impervi, dove l’incrociarsi di visioni e ideali tanto diversi genera, oggettivamente, conflittualità e una difficile convivenza, proprio per la sua intrinseca eterogeneità.
E le mediazioni politiche non avvenendo tra diverse declinazioni di un medesima matrice culturale( un po’ la vecchia dimensione correntizia della DC) ma tra visioni e ideali, talora molto diverse, non sempre riescono a trovare la sintesi, con l’effetto di facili prevaricazioni della componente politica più rappresentata.
Le esperienze pregresse non ci lasciano tanti dubbi sulla possibile convivenza tra tante anime, liberali, liberiste,cattoliche, popolari e riformiste, che l’ulteriore riferimento, nell’affiliazione alle variegate famiglie politiche europee, rende ancora meno sovrapponibili.
Se allora la sfida è declinare una coerente ed organica visione di paese e delle sue alleanze geopolitiche, occorre porre la più pregnante attenzione alle nuove istanze dei territori, delle comunità e del sistema produttivo e tradurli in modelli economici e ordinamentali, essendo il capitolo delle riforme condizione ineludibile per i periodici trasferimenti finanziari del Recovery plan.
Una tal visione dovrà necessariamente dotarsi al più presto di un organico progetto di ricostruzione del paese (progetto che purtroppo ancora non si vede all’orizzonte, mancando un tavolo di lavoro ad hoc nel partito, non essendo sufficiente il mero richiamo ai principi ispiratori) nella più aderente elaborazione di un’idea di politica come missione e servizio al paese, volta al perseguimento della migliore promozione civile, sociale ed economica di ciascuna persona e del bene comune, e all’impiego, nel giusto modo e con adeguate competenze, nel confronto con le altre forze politiche, di tutte le risorse previste dal Pnrr e tradurle in concreto sviluppo e in progresso, equo e sostenibile, a vantaggio di tutta la comunità nazionale.
18.05.2021
Luigi Rapisarda

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