Con tre sentenze cosiddette gemelle n. 2115, n. 2120 e n. 2133 del 22 gennaio 2024, la Cassazione, facendo il punto sul complicato rapporto tra processo tributario e processo penale, ha affermato il principio secondo cui alla sentenza penale di assoluzione, ma anche di condanna, non può essere riconosciuta alcuna automatica autorità di cosa giudicata, nemmeno se i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi su cui si fonda l’accertamento tributario.
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La Suprema Corte, ribaltando la tesi delle Commissioni di merito,  ha sottolineato , con forza, l’impossibilità di utilizzare, automaticamente e acriticamente, le risultanze del giudizio penale per la soluzione della controversia tributaria.
Ha affermato infatti che il giudice adito, in particolare,  è tenuto a procedere all’apprezzamento della sentenza penale, ponendola però a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel processo.
Questa linea di condotta vale, ovviamente, sia in caso di assoluzione che di condanna in sede penale. Se, ad esempio, la condanna penale  deriva da fonti di prova non utilizzabili nel giudizio penale, ne discende che i due giudizi potrebbero divergere nell’esito.
È comunque il caso di evidenziare che questo principio sarà valido fino a quando non sarà attuata la riforma fiscale.
Infatti la delega, contenuta nella legge n. 111 del 2023, si occuperà anche di coordinare il sistema penale a quello tributario.  In particolare si cercherà di scongiurare la possibilità che si possa essere condannati due volte per lo stesso fatto.
In buona sostanza il legislatore si è fatto carico di ridurre le ipotesi in cui il giudizio tributario e quello penale non vanno d’accordo.
Di conseguenza ogni qual volta che la sentenza penale avrà stabilito l’innocenza del contribuente, perché non ha commesso quel fatto,tale provvedimento,  senza alcuna possibilità di intervento del giudice tributario,  dovrà automaticamente far decadere il giudizio.
  Avv. Salvatore Torchia 

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