Luigi Rapisarda Quei sentimenti di grande speranza che ci hanno pervaso nel momento in cui, sciolta la riserva, il prof. Mario Draghi si e assunto il gravoso compito di guidare il nuovo governo, cominciano a cedere il campo a qualche inquietudine nel veder continuare a fronteggiare con un certo affanno una emergenza sanitaria, sociale e civile mai vista prima..
Certo non è facile riavvolgere il nastro in pochi giorni.
Sta di fatto che il governo stenta a prendere il passo giusto,ed è costretto a reiterare misure scarsamente efficaci ove il denominatore comune è stato l’improvvisazione, l’inadeguatezza e la supponenza, e le linee guida del partito-movimento di maggioranza relativa,ma non più nel paese,l’ avventurismo e i modelli pauperisti ed anti sviluppo.
Mentre non è stato di certo uno spettacolo esaltante la rissa che si è scatenata all’interno dei partiti di maggioranza per accaparrarsi la pletora di posti da sottosegretario.
Riportandoci d’un colpo al riti spartitori di tempi che ci auguravamo superati.
Speriamo che Draghi non si impantani tra i tentacoli della partitocrazia.
C’è invece un aspetto del quadro politico che sta emergendo fortemente in questi pochi giorni di vita del governo Draghi che non può essere ignorato, ossia il repentino processo di destrutturazione dell’assetto dei partiti, impensabile fino a qualche giorno fa.
La formalizzazione, innanzitutto di una identità istituzionale del movimento antisistema che aveva esordito nelle aule parlamentari con la ferma intenzione di “voler aprire il parlamento come una scatola di tonno”.
Qui si smentisce di colpo tutto l’armamentario anti establishment e dell’antipolitica che in questi anni ha caratterizzato l’azione propagandistica dei grillini.
Francamente nessuno avrebbe scommesso mai su una tale evoluzione del movimento 5 Stelle nel disporsi a sostenere un banchiere a capo del governo, fino a poco tempo prima, additato come il campione dei poteri forti.
E,ancora più impensabile poi il convergere in maggioranza con Berlusconi di cui ne dicevano di ogni sorta.
L’altro effetto miracolistico sembra essere stato il riportare senza colpo ferire nell’area europeista la Lega di Salvini.
E l’ancora più stupefacente il repentino ribaltamento della sua linea nel parlamento europeo con l’immediata conseguenza, attraverso una rotazione a 180 gradi, di votare il regolamento del Recovery fund.
Riposizionamenti inaspettati che trovano nella genesi del governo Draghi la loro ragion d’essere,
Ciò che però non sembra plausibile è l’affermazione semplicistica di Salvini di fidarsi, quando ancora non erano note le linee programmatiche, così e semplicemente dell’ autorevolezza del premier, visto che la modalità con cui si è formato questo esecutivo non ha percorso i normali riti della intesa programmatica tra i partiti.
Non c’è dubbio invece che l’inaspettata scelta di Salvini di sostenere il governo è stato il timore del mondo imprenditoriale del triangolo produttivo del nord di non lasciare questa unica ed irripetibile occasione, che si caratterizza in un così poderoso sostegno finanziario europeo teso al rilancio dei sistemi economici dell’Unione, nelle mani di quelle forze politiche che hanno guardato sempre con sospetto al mondo dell’impresa.
Come non poco trascurabile deve essere stata anche la prospettiva immediata di mettere le mani nella riforma elettorale, attualmente in fase di stallo nelle commissioni parlamentari, cercando di riposizionarla su un modello di tipo maggioritario.
Una preoccupazione che si è ulteriormente alimentare con la subitanea iniziativa del Pd di creare un intergruppo parlamentare con 5 Stelle e Leu.
Come a prefigurare una coalizione compatta e temibile nella prossima competizione elettorale con una chiara direzione verso un nuovo bipolarismo.
Non diversamente dal testamento sul suo futuro politico, che prima di lasciare definitivamente palazzo Chigi, ci ha ammannito Giuseppe Conte, offrendosi come leader di una coalizione di riformisti e giustizialisti.
In questa prospettiva è chiaro che il centrodestra non resterà con le mani in mano e tornerà alla carica per far saltare quella timida ipotesi di proporzionale che nell’ambito del tavolo per la riforma elettorale stava prendendo corpo,
E chiaro che in un quadro di riaggregazione bipolare delle forze politiche il proporzionale non troverà molti sostenitori.
Neanche nel movimento 5 stelle: avendo preso atto dell’impraticabilità del velleitario disegno di non voler fare alleanze con nessuno, per mantenere la purezza originale( che per la verità facciamo fatica a cogliere con tutti questi capitomboli che hanno fatto)facendosi subito strada l’opposto imperativo di allearsi anche con il diavolo pur di non perdere gli scranni del potere.
Un tale scenario non giova alla buona riuscita del valoroso tentativo di ridare corpo e vita alla DC, sia pure, in una chiave di pertinente aderenza alle necessità e ai bisogni e aspettative del paese, delle famiglie, del mondo produttivo e delle giovani generazioni per riportare in auge i valori centristi del popolarismo e del riformismo solidarista di quella grande forza politica come risposta ineludibile, come seppero essere alla base di politiche di ricostruzione e di progresso dell’ultimo dopoguerra.
Un tentativo che rifugge da iniziative verticistiche di qualche parlamentare che vuole mettere cappello sulle dinamiche sempre più imprevedibili dell’attuale sistema politico.
Però ci pare naturale chiederci quali margini può avere davvero, se si accantonasse ogni ipotesi di riforma del sistema elettorale in senso proporzionale alla tedesca che, con il meccanismo della sfiducia costruttiva, rende maggiore stabilità alla legislatura e riacquistasse spazio invece un modello di tipo maggioritario che costringerà le forze centriste, non più, da tempo,in questo nostro quadro parlamentare, decisivo baricentro istituzionale, a schierarsi anticipatamente con l’una o con l’altra coalizione?
Non solo.
C’è anche il fatto che la copiosa messe di riforme che il nuovo esecutivo ha prefigurato, renderà necessario spingere il tavolo della discussione verso una soluzione più nettamente maggioritaria, nell’ingannevole obiettivo di assicurare maggiore stabilità al sistema politico.
Una soluzione che, per la verità, da noi,non ha mai trovato effetto neanche con il famigerato mattarellum.
Questo ci fa preconizzare con preoccupazione che la conversione di Salvini possa essere solo di facciata, anche per il tempo assai ristretto di cui Draghi può godere per l’attuazione del corposo programma del suo governo.
Un tempo che non si preannuncia assai ampio per tutte le incognite che si possono fondatamente attendersi dall’esito della prossima elezione del Capo dello Stato, a febbraio del prossimo anno.
Con i tanti scenari possibili.
Tra cui un’ipotesi Draghi a nuovo Presidente della Repubblica.
Con l’ovvia crisi di governo e, a quel punto, un sicuro scioglimento delle Camere e l’indizione di nuove elezioni.
In questa ipotesi è prevedibile una consultazione con un sistema elettorale probabilmente maggioritario.
In questa cornice,ove è assai più difficile far emergere le diversità, si riproporrebbe, in tutta la sua virulenza, il sovranismo della Meloni, che saprà ben mettere a rendita l’essere rappresentante,pressoché unica, dell’opposizione.
Ed è fuor di dubbio che dopo un anno di innaturale convivenza nell’esecutivo di forze così tanto eterogenee che il rischio di sentirsi superato nei consensi da FdI, costringerebbe di Salvini a gettare la maschera ed il suo europeismo di facciata.
Del resto a sentire nel dibattito parlamentare e nei dibattiti sui media gli interventi dei falchi, Borghi, Bagnai e dell’europarlamentare Rinaldi, non sembra ardito dire come essi si siano incaricati di essere dei facili profeti.
Mentre anche Berlusconi, in una identità sempre più gregaria e subalterna, non potrà che seguire la logica dell’aggregazione maggioritaria.
E il problema non è solo su quale peso e spessore riesca a capitalizzare in questo contesto il partito della nuova DC.
C’è da considerare un possibile più netto spostamento verso l’area di centro di Renzi, che sembra imitare le mosse di Macron nel tentativo di accreditarsi come leader di centro in una visione liberal democratica, saldamente europeista, aggregando tutte quelle formazioni liberali, moderate e riformiste che fanno capo a Calenda e a Emma Bonino e a una cospicua fetta di Forza Italia non disposta a farsi fagocitare dal l’area sovranista e populista di Lega e FdI.
Un intreccio di questioni che giustificano il grande e fitto dibattito culturale ed accademico che su questo scenario si è avviato sul cruciale interesse che sta suscitando il centro sull’attuale sistema politico e su quale sia il reale effetto attrattivo e quale il suo vero spessore.
Non è infatti isolata la convinzione, come da più parti si auspica,che esso possa agire da leva virtuosa per una rigenerazione del sistema politico da tempo sfigurato dall’ eccessiva polarizzazione nelle sue capacità di proposta e fare da argine ad un nuovo bipolarismo.
Un centro che recuperando la visione moderata e di sapiente mediazione delle istanze del paese, nel solco di quegli ideali e valori che furono ben espressi e tradotti in politiche efficaci, almeno nei primi trent’anni dalla Democrazia Cristiana, riposizioni gli obiettivi di breve e lungo periodo al riparo dalle spinte dell’antipolitica e dell’anti-sviluppo pauperiste che ha fatto virare le politiche di questa legislatura verso una involuzione disastrosa, poi aggravata da una pandemia inarrestabile.
Peccato che molta parte della discussione sembra avviarsi su un percorso sterile e senza una reale valenza.
Tale rischia di essere il domandarsi se tra questa classe dirigente che si sta riorganizzando per proporre una offerta politica ispirata agli ideali del popolarismo,dei cattolici democratici e del cristiano-sociali, sia pure in una chiave di aderenza alla realtà socioeconomica del momento e all’esigenza del poderoso sforzo di ricostruzione del paese e degli obiettivi di coesione sociale, ci sia una personalità capace di mettere insieme tutte queste esperienze politiche che con l’uscita di scena della DC hanno trovato ambiti e schieramenti differenti entro cui proseguire il loro impegno politico ed istituzionale.
Una domanda che, seppur legittima, rischia di mal simulare,però,un vecchio modo di guardare e ragionare sulle dinamiche dell’azione politica.
Schemi di lettura tipici del trentennio che abbiamo alle spalle che vanno superati perché il paese, se vuole davvero invertire la rotta, ha bisogno di partiti credibili capaci di offrire risposte solide,durature e non divisive.
Insomma ci vuole una visione di paese organica capace di assicurare sviluppo armonico fondato sulla coesione sociale e non sulle contrapposizioni,ossia tutto il contrario dei partiti leaderisti,
Sfida certamente non facile.
Eppure il contesto non sembra così sfavorevole a condizione che si abbia il coraggio di riportare al focus del dibattito l’unica questione pregiudiziale che serve in questo momento per una reale credibilità del sistema politico, ossia l’etica delle funzioni, quale base ineludibile per ridare fiducia, non solo occasionale, alle istituzioni nella consapevolezza di agire, secondo leale spirito di servizio e propensione al bene comune.
In questo spirito grandi uomini riescono a costruire le migliori condizioni per lo sviluppo ed il benessere di un popolo.
Certo, non può ignorarsi che l’opera di riorganizzazione di un partito, non legato alle suggestioni populiste o demagogiche di qualche leader di turno, non comporti sfide enormi nell’attuale società dei social-media.
E va dato atto che lo sforzo degli attuali esponenti dell’area politica che si riconduce al pensiero cattolico nel tentativo di una aderente e concreta declinazione in proposta politica, assente da circa trent’anni, pur se encomiabile, è ancora debole, agendo in condizioni quasi pionieristiche in confronto alla messe di risorse mediatiche e della gran parte dell’informazione nazionale che ne confina in qualche trafiletto di stampa le dinamiche in corso.
Insomma una sfida che va incoraggiata.
Tuttavia questo percorso federativo che parte dall’aggregazione delle tante formazioni e laboratori culturali in cui si è divisa quella identità culturale che lasciò la DC,al momento del suo abbandono della politica attiva, deve purtroppo ancora ritrovare l’anima comune di un progetto politico che aggreghi possibilmente tutte le diversità di questa galassia, capace di offrire al paese una visione prospettica di lungo periodo, predittiva di una nuova fase di sviluppo e di progresso solido e duraturo.
Questo è un gravoso limite alla speditezza di un processo elaborativo che mostra già forte ritardo rispetto alle prossime imminenti consultazioni di maggio o settembre, a seconda se il piano vaccini entrerà a regime e risulterà efficace.
Ma ci attendiamo anche una maggiore consapevolezza da parte di questa classe dirigente, che ha inteso proseguire nel tentativo di presidiare quei valori democristiani, affinché non tramuti questa importante sfida in tattiche strumentali alla propria sopravvivenza politica o come meglio ha scritto Paolo Frascatore sul “Il domani d’Italia” alla “ continua ricerca di potere e di poltrone”.
24.02.2021
Luigi Rapisarda

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