Francia, l’aborto in Costituzione: un’antinomia tra le libertè

Luigi RapisardaCi sono epoche in cui la storia si nutre di eventi memorabili, alludo ovviamente all’emanazione della prima Carta dei diritti fondamentali, costruita attorno alle tre grandi categorie universali: Liberte’, egalite’, fraternite’.

Altre in cui quegli esiti gloriosi finiscono per subirne, come effetto non congruamente valutato in tutta la sua ampiezza, un clamoroso arretramento.

Così mi pare essere la recente decisione del 4 marzo scorso del Congresso nazionale francese – l’equivalente delle nostre Camere riunite in seduta comune – di mettere in Costituzione il diritto all’aborto.

Un passo falso nel naturale processo di evoluzione dei diritti per la palese antinomia che il diritto all’aborto genera, all’interno del sistema di tutela dei diritti fondamentali, con il più universale dei diritti:ossia il diritto all’esistenza e alla vita.

L’effetto più visibile è la creazione di un paradosso costituzionale per l’ impossibile contemporaneo esercizio dei due fondamentali diritti: da una parte il diritto all’esistenza ed alla vita, riconosciuto come diritto naturale e supremo e dall’altro il diritto all’aborto, nella nuova versione francese, ossia costituzionalizzato come diritto fondamentale.

Ma vi è di più.

Con l’introduzione dell’aborto nella sfera di tutela dei diritti fondamentali, si legalizza una irragionevole supremazia senza freni (i diritti fondamentali sono per definizione senza condizioni) rispetto al supremo diritto all’esistenza ed alla vita a tutela del nascituro.

Per i governanti francesi, Macron in primis, questa decisione eleva la tutela di questo diritto al livello più alto della giustizia.

Di certo non fa gioire quanti, e non sono pochi, trattandosi di un confine che va oltre l’area del mondo cattolico, hanno a cuore la tutela del nascituro e il suo diritto all’esistenza, tanto quanto può compararsi ad esso il diritto alla vita di ciascuna persona.

Come era immaginabile, la scelta del Parlamento francese non poteva non imbattersi nella legittima critica da parte dell’Episcopato d’Oltralpe che in un articolato documento si è così espresso: “Proprio nell’epoca dei diritti umani universali, non può esserci un ‘diritto’ a sopprimere una vita umana”.

Anche il presidente della Pontificia Accademia per la vita, Mons. Paglia, ha così commentato la decisione del Parlamento francese: “..credo che non sia questo il metodo o queste le parole con le quali possiamo tutelare e difendere le donne e i loro bambini..

Parole in cui si colgono tutte le asperità di una scelta che va oltre il diritto naturale ad esistere.

Un salto etico e giuridico troppo sbilanciato che finisce per trasformare una decisione(quella della donna) sofferta, esercitabile a determinate condizioni, secondo le leggi ordinarie dei diversi paesi del mondo occidentale – ma i cui effetti investono direttamente un altro essere ed il suo diritto ad esistere – in un potere senza freni etici e giuridici, soverchiati dalla valenza costituzionale che lo liberalizza.

Tanto da essere innegabile il fatto che questa scelta di campo fa assumere al sistema costituzionale francese una connotazione irragionevole ed antitetica, nel versante dei principi fondamentali, rendendo legittima la pura libertà (che è cosa diversa di una potere a determinate condizioni poste da una normativa ordinaria) di sopprimere una vita che si è formata in grembo e che attende di vedere la luce come essere, altro da sé, rispetto alla mamma e al padre.

Ma è soprattutto la sconfitta del diritto alla vita che subisce così una forte compressione, mentre si fortifica un divisivo e inaccettabile diritto a sopprimere un essere umano( tranne i casi in cui sia la mamma a rischiare la vita, a dover subire gravi turbamenti psichici o per altre motivate ragioni terapeutiche, economiche o sociali, con tutta una serie di supporti fino alla decisione, così grosso modo la maggior parte delle normative ordinarie, salvo una maggiore ampiezza di esercizio)la cui tutela a nascere si radica fortemente proprio su quel diritto alla vita che la stessa Costituzione francese solennemente riconosce.

Con l’effetto che in questo groviglio di contraddizioni e di opposte tutele è il diritto ad esistere che finisce per soccombere fino alla sua totale vanificazione.

E a nulla vale il fatto che il diritto alla vita sia di per sé diritto supremo ed universale di ogni essere umano( principio che dobbiamo proprio alla prima Costituzione universale dei diritti in Europa, scaturita dalla Rivoluzione francese del 1789).

Concetto che da tempo la scienza( e con essa la scienza giuridica)ha riconosciuto come meritevole di tutela normativa sin dal suo concepimento.

E non poteva essere diversamente essendo il diritto alla vita il fondamento naturale dell’esistenza del genere umano e del suo divenire( sia che lo si guardi in una prospettiva laica, sia sotto il profilo religioso)

E non c’è ordinamento che non riconosca nel diritto all’esistenza ed alla vita la sua natura pre-giuridica, ed in quanto tale, preesistente all’invenzione del diritto come strumento regolatore della convivenza e perseguimento degli obiettivi di conservazione, di sviluppo e di benessere di una società.

In questo quadro si costruirono le tutele costituzionali con cui si delineò la scala di valori del consorzio umano che ogni Stato assume di tutelare, nella sua funzione suprema, con i suoi ordinamenti.

L’impressione che se ne ricava da così inopinata scelta è che non sia altro che il segno di una nuova e inedita declinazione dei diritti, di cui la Francia se ne fa capofila, ma foriera di un quadro di antinomie nei principi, generate dalla confliggenza delle rispettive tutele, nel cui guazzabuglio l’esercizio dell’uno esige inevitabilmente la soppressione del suo opposto.

E cosa ancora più incomprensibile è il fatto che l’antinomia che si viene a creare introduce nel sistema dei diritti un aporia senza vie d’uscita.

Cosi da inficiarne la stretta coerenza del sistema dei principi oltre ad una inaccettabile distorsione dei principi di civiltà.

È la nuova frontiera dei diritti?

Ma davvero l’aborto merita un pari accostamento ai diritti fondamentali che ogni Costituzione liberale sancisce?

L’interrogativo ci conduce ineludibilmente a considerare quale valore giuridico abbia nel confronto con i diritti fondamentali la tutela della donna di voler abortire e, ancor prima, se l’aborto sia da considerare un vero e proprio diritto.

La breve analisi comparativa della questione rende non incongruo un confronto con il cammino tormentato della nostra giurisprudenza costituzionale: dì tutt’altro avviso, come possiamo leggere nelle mirabili argomentazioni di una sentenza degli anni ‘90, redatta dal prof. Giuliano Vassalli, in qualità di giudice costituzionale, ove si riconosce che:” Il diritto alla vita, inteso nella sua estensione più alta..è tra quei diritti che occupano, nell’Ordinamento, una posizione, per così dire, privilegiata in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.

L’argomentazione di questa pronuncia costituzionale, pietra miliare nel determinare gli ambiti della gerarchia dei valori di cui sono espressione i diritti, rende evidente come non sia immotivato rilevare la dismisura nella nuova gerarchia dei diritti attribuita a questa particolare fattispecie dalle istituzioni rappresentative francesi.

Peraltro la sentenza della nostra Corte costituzionale, riconoscendone il fondamento pre-giuridico, trova il suo caposaldo nella nostra realtà ordinamentale partendo dal riconoscimento che la nostra legge 194 sancisce che: “ Lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio..”.

Ciò esclude che il rapporto tra la mamma ed il nascituro possa essere inquadrato in una sorta di assimilazione a disporre a proprio piacimento come fosse un diritto di proprietà.

Principio corroborato dalla successiva Legge 40 del 2004 che riconosce il concepito tra i soggetti di diritto.

Guardando altrove non va trascurata la Statuizione nel 2021, della Corte suprema degli Stati Uniti (Continente artefice della prima Carta costituzionale organica dei diritti nel 1787) che ha negato al diritto di aborto il carattere di diritto fondamentale.

Insomma la connotazione di diritto fondamentale e il suo inserimento nella Carta costituzionale, da parte delle istituzioni rappresentative francesi, non può essere letta che come una involuzione rispetto a quel manifesto dei principi universali che la rivoluzione del 1789 radicò nelle culture liberali dell’Occidente.

10 marzo 2024

Luigi Rapisarda

Cassazione Civ. , Sent. n. 2199/2024: “nel giudizio tributario di secondo grado non possono essere introdotte domande nuove che modifichino l’oggetto della controversia. Il Giudice di appello, quindi, ha il potere di dichiarare le domande nuove inammissibili d’ufficio”

La Cassazione, con la sentenza n. 2199 del 22 gennaio 2024, ha stabilito che nel giudizio tributario di secondo grado non possono essere introdotte domande nuove che modifichino l’oggetto della controversia.
Di conseguenza il giudice di appello ha il potere di dichiarare le domande nuove inammissibili d’ufficio, perché si tratta di questioni che sono sottratte alla disponibilità delle parti.
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La Suprema Corte ha chiarito che il processo tributario ha un oggetto rigidamaente delimitato dalle contestazioni comprese nei motivi dedotti col ricorso introduttivo. Pertanto, i motivi contenuti nel ricorso introduttivo del giudizio, costituiscono la causa petendi, rispetto all’invocato annullamento dell’atto con conseguente inammissibilità di un mutamento delle deduzioni avanti al giudice di secondo grado.
Peraltro è l’art. 57 del dlgs n.546 del 1992 a porre dei paletti alla proponibiiita’ ,in appello, di nuove eccezioni e domande. Pertanto le parti possono soltanto ampliare le loro argomentazioni difensive rispetto a quelle adottate nel primo grado del giudizio.
Avv. Salvatore Torchia

Cassazione, Ordinanza n.  1941 del 18 gennaio 2024: “non è nullo l’avviso di accertamento che non riporti precisamente l’indicazione della singola norma di riferimento su cui si fondi la pretesa.” 

La Cassazione, con ordinanza n.  1941 del 18 gennaio 2024, ha affermato che non è nullo l’avviso di accertamento che non riporti precisamente l’indicazione della singola norma di riferimento su cui si fondi la pretesa.
Occorre però, che nelle motivazioni dello stesso, siano inseriti i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che permettono al contribuente di esercitare i proprio diritto di difesa,
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La Suprema Corte ha chiarito che l’ accertamento non è affetto da nullità,  come riteneva il contribuente ricorrente, se è privo del richiamo alla norma giuridica sul quale si fonda.
In sostanza la nullità non può mai dipendere, di per sé, dalla mancata indicazione della norma, sulla quale l’accertamento si fonda ma, eventualmente,  dall’omessa indicazione dei presupposti di fatto e di diritto.
Peraltro, l’art 42 comma 2 del DPR n.600 del 1973, prevede soltanto che deve recare l’indicazione dell’imponibiie accertato, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate. Il tutto al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti d’imposta. Oltre, come detto, la motivazione in relazione ai presupposti di fatto e alle ragioni giuridiche che lo hanno determinato.
Avv. Salvatore Torchia

Cassazione Civ. Ordinanza n. 3097 del 2 febbraio 2024: “in tema di crediti fiscali, riconosciuti in una sentenza Tributaria, le somme spettanti possono essere pretese con giudizio di ottemperanza, senza che sia necessaria la costituzione in mora e senza attendere il passaggio in giudicato della sentenza.” 

La Cassazione, con ordinanza n. 3097 del 2 febbraio 2024, ha stabilito che in tema di crediti fiscali, riconosciuti in una sentenza Tributaria, le somme spettanti possono essere pretese con giudizio di ottemperanza, senza che sia necessaria la costituzione in mora e senza attendere il passaggio in giudicato della sentenza.
Questo quando il Fisco non abbia eseguito spontaneamente il pagamento  entro 90 giorni dalla notifica della sentenza.
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Come è noto il giudizio di ottemperanza è disciplinato dall’art. 70 del dlgs n. 546 del 1992 ed è stato istituito allo scopo di ottenere quanto stabilito nelle sentenze emesse dal giudice tributario.
Di conseguenza è ammissibile quando si deve contrastare l’inerzia della Pubblica Amministrazione rispetto al giudizio, ovvero la difformità dell’atto posto in essere dalla stessa rispetto a quanto disposto nella sentenza da eseguire.
Esso, quindi,  costituisce l’unico rimedio per l’attuazione delle sentenze tributarie nel caso di inadempimento dell’amministrazione finanziaria.
Orbene, nel caso in questione la Suprema Corte ha chiarito che, quando si tratta di una sentenza con la quale è stato stabilito il pagamento di somme da parte dell’ Amministrazione, e questa non lo esegue spontaneamente entro 90 giorni dalla notifica della sentenza,  il contribuente può promuovere il giudizio di ottemperanza senza necessità di formale costituzione in mora e, soprattutto,  senza dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza medesima.
Inoltre ha aggiunto come, nel giudizio di ottemperanza,  non è necessario che, sulla sentenza,  sia riportata la formula esecutiva. Pertanto lo stesso può essere instaurato, senza alcuna formalità,  decorsi 90 giorni dalla notifica della sentenza di cui si chiede l’ottemperanza.
                               Avv. Salvatore Torchia